Diffamazione sui social: ipotesi aggravata?
L’art. 595 c.p. disciplina il reato di diffamazione che si configura quando un soggetto, comunicando con più persone, offenda la reputazione di un altro soggetto. L’offesa, la comunicazione con più persone e l’assenza della persona offesa che non si può difendere formano gli elementi costitutivi della fattispecie.
Il comma 3 della norma prevede una circostanza aggravante che si configura nei casi in cui l’offesa venga arrecata con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità.
Certamente la diffusione di notizie tramite i social non può essere ricondotta nel concetto di stampa poiché la giurisprudenza, dopo aver risolto la disparità di trattamento tra la carta stampata e il giornale on line, ha chiarito che possono considerarsi equiparate al concetto di stampa solo le pubblicazioni avvenute nell’ambito di una struttura organizzativa editoriale con a capo un direttore responsabile.
Occorre a questo punto comprendere se la diffusione di notizie diffamanti tramite i nuovi mezzi informatici e telematici possano essere ricondotti nella nozione contenuta al terzo comma, ovvero “ qualsiasi altro mezzo di pubblicità “.
La giurisprudenza sembra ormai convinta del consolidato orientamento (ex plurimis Cass. 8482/2017) secondo cui la pubblicazione, e dunque la diffusione, di un messaggio offensivo per mezzo di una bacheca social integri l’ipotesi di diffamazione aggravata dall’uso di un mezzo di pubblicità in virtù di un’attività non più professionale bensì spontanea.
Ma soprattutto i nuovi mezzi di comunicazione, come le bacheche dei social, sono stati interpretati estensivamente e considerati idonei a coinvolgere un vasto numero di persone in grado di aggravare la capacità di diffondere il messaggio lesivo della reputazione altrui.
Ebbene, considerando che l’aggravante di cui al terzo comma trova la sua giustificazione nella capacità diffusiva di “ qualsiasi altro mezzo di pubblicità” si può certamente sostenere che la diffamazione posta per mezzo di un social network debba sempre considerarsi aggravata ai sensi del terzo comma dell’art. 595 del codice penale, rischiando una condanna da sei mesi a tre anni.
Tra l’altro, proprio per la capacità diffusiva dei social, oltre all’ipotesi aggravata del reato di diffamazione, la condotta in questione legittima anche il licenziamento per giusta causa se rivolta al datore. Difatti, la sezione lavoro della Corte di cassazione ha stabilito, con sentenza n. 28878 del 2018, che il lavoratore non potrà nemmeno invocare il divieto ex art. 8 L. 300/70 – che vieta al datore di lavoro di effettuare indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione all’attitudine professionale del lavoratore - in quanto l’accesso sul profilo social è volto ad accertare non le sue opinioni bensì atteggiamenti rilevanti in relazione alle sue attitudini professionali.
Ciò in considerazione del consolidato orientamento secondo cui la condotta extra-lavorativa del dipendente può avere rilevanza disciplinare ove vi sia violazione delle obbligazioni gravanti sul lavoratore, venendo meno a quel dovere di fedeltà sancito dall’art. 2105 del codice civile letto in combinato disposto con i canoni di correttezza e buona fede sanciti dagli art. 1175 e 1375 c.c., riflettendosi cosi in termini negativi sul rapporto di lavoro e compromettendone le aspettative.